Intervista ad Enzo Rullani, economista, Docente di Strategia d'Impresa all'Università Ca' Foscari di Venezia.
Che cos'è l'Economia della Conoscenza? Si tratta di
un'invenzione della New Economy o la conoscenza ha rappresentato un
elemento chiave sin dall'inizio dell'era industriale? Quali sono le
caratteristiche dell'Economia della Conoscenza?
L'economia della conoscenza sembra una "invenzione" o una "scoperta"
degli ultimi anni.
Apparentemente eredita il mito che, nel periodo della New Economy, era
stato costruito intorno all'informazione (ossia alla conoscenza
codificata in modo da essere trattata da algoritmi computerizzati). Solo
che, nel linguaggio, si slitta dal termine (altamente compromesso con
lo sboom della New Economy) di "informazione" a quello, più intellettuale e aperto, di "conoscenza".
Del resto, si tratta di uno slittamento naturale, inevitabile. Una volta
emersi i limiti dell'informazione, che è conoscenza separata dai
processi di apprendimento che l'hanno prodotta, si è scoperto la
conoscenza come surrogato (equivalente funzionale) dell'informazione,
riproponendo spesso lo stesso schema con la sola sostituzione del
termine linguistico. Se il passaggio dall'informazione alla conoscenza
viene preso sul serio, tuttavia, ci si accorge che la cosa non è così
semplice e neutrale come sembra a prima vista. Una volta che l'economia
dell'informazione (con le sue straordinarie proprietà replicative =
riproduzione a costo zero) viene trasportata in un ambiente complesso,
dove bisogna continuamente mettere a punto le conoscenze possedute per
"inseguire" un ambiente non prevedibile, non basta più quel tipo di
conoscenza codificata che sono i bit e il software destinati
all'intelligenza dei computers e delle macchine, senza intervento
dell'uomo e dell'apprendimento tipico degli uomini. Anche la mera
replicazione di un'informazione o di un programma di software richiede
un processo di apprendimento che mette in campo elementi di incertezza,
di valutazione, di chiarificazione e di azione da parte di uomini e
gruppi di uomini. Ciò riduce gli spazi disponibili per l'automatismo
moltiplicativo proprio dell'informazione, e, al tempo stesso, aumenta -
grazie all'adattamento e alla re-invenzione degli usi - la capacità di
propagazione della conoscenza originale in un contesto di uso sempre più
esteso e durevole.
Dunque, l'economia della conoscenza è una cosa diversa dall'economia
dell'informazione che trionfava ancora anni fa, e che aveva dato luogo
alla metafora del "capitalismo informazionale" di Castells, anche se ci
possono essere dei ponti che collegano i due mondi.
In realtà, questa (recente) filiazione dell'economia della conoscenza
dall'economia dell'informazione è assolutamente riduttiva rispetto al
ruolo reale che la conoscenza ha svolto come forza produttiva, assai
prima che esistessero i computers e gli automatismi informatici.
Possiamo dire che la conoscenza è stata sempre - anche nel passato
remoto - una risorsa importante ai fini della produzione (la produzione
dell'homo sapiens è in effetti un'attività "sapiente" perché si
distingue da tutte le altre attività produttive, naturali o animali, dal
momento che impiega nel lavoro le capacità intellettuali del cervello
umano), ma diventa forza produttiva fondamentale solo con l'età moderna,
ossia in corrispondenza di quel passaggio fondamentale che fa emergere
la conoscenza scientifica come conoscenza autonoma, libera dal potere
della religione, della tradizione e dell'autorità politica. La scienza
conquista questa autonomia utilizzando come banco di prova per la verità
di un'affermazione il principio galileiano dell'esperimento, ossia
della riproducibilità delle relazioni causa-effetto affermate.
Ma, una volta che si enuclea un sapere che ha la caratteristica di
essere riproducibile, l'economia reale ha a disposizione una formidabile
risorsa: una conoscenza astratta (quella della scienza e della
tecnologia) che è costruita in modo da essere riproducibile dieci,
cento, mille volte e in contesti diversi. Il capitalismo delle macchine,
che nasce dalla rivoluzione industriale e si afferma nel corso
dell'ottocento come economia della (prima) modernità ha, in effetti, la
sua ragion d'essere nelle macchine, che incorporando conoscenza
riproducibile (basata sulla scienza), consente enormi economie di scala.
Infatti, il lavoro impiegato per progettare la prima macchina può
essere ri-usato a costo zero per costruire la seconda, la decima, la
millesima macchina. E il lavoro impiegato per progettare la prima unità
di un prodotto ottenuto dalle macchine può essere ri-usato altrettante
volte per ottenere migliaia o milioni di prodotti identici.
Questo significa che ogni euro (o ora di lavoro) investito nella
produzione di nuova conoscenza può rendere molto o anche moltissimo, dal
momento che quella conoscenza può diventare utile - generando valore
per gli utilizzatori - non una ma cento, mille volte, con effetti
moltiplicativi che cambiano radicalmente il significato del produrre
rispetto all'economia pre-industriale. La novità sostanziale apportata
dalla modernità sta in questo: nel fatto che diventa conveniente -
grazie alla natura riproducibile della conoscenza - investire in
processi di apprendimento. Si comincia a lavorare non per ripetere
operazioni già note, ma per innovare, inventando nuove macchine, nuovi
prodotti, nuovi significati. In precedenza la conoscenza veniva usata,
ma - non essendo conoscenza riproducibile - il suo limitato bacino di
uso rendeva non conveniente investire in apprendimento. La conoscenza
che veniva usata nell'agricoltura pre-industriale o nell'artigianato
era, in effetti, conoscenza ottenuta gratis dalla tradizione o da
processi di learning by doing e di apprendistato che, pur avendo bassi
costi, non realizzavano mai grandi economie di scala (da riuso).
L'economia della conoscenza comincia dunque ad operare due secoli e
mezzo fa, attraverso la meccanizzazione, per svilupparsi poi nel
fordismo (dove diventa "organizzazione scientifica"), nell'economia dei
distretti (sotto forma di economia della propagazione territoriale delle
conoscenze relative alle tecnologie e ai mercati distrettuali), nella
New Economy (in cui prende la forma di economia della
replicazione/propagazione automatica delle informazioni).
Oggi ereditiamo tutto questo: non possiamo dunque dire che sia una
novità. In tutta la modernità (dalla rivoluzione industriale in poi), il
capitalismo moderno è stato una economia della conoscenza nel senso che
il valore è stato prodotto, in gran parte, dalla propagazione degli usi
delle conoscenze disponibili, e dal conseguente re-investimento dei
profitti e dei salari così ottenuti nella produzione di nuove
conoscenze.
Ma, perché il riferimento alla conoscenza non sia soltanto ornamentale,
bisogna capire bene che cosa vuol dire: in cosa differisce il motore
dello sviluppo economico quando questo motore viene alimentato dalla
produzione e propagazione delle conoscenze, rispetto alla visione
classica, in cui, invece, la "benzina" della crescita è data
dall'accumulazione nel tempo del capitale e dai guadagni di efficienza
che possono essere ottenuti allocando meglio le risorse, grazie alla
forza selettiva del mercato e del calcolo imprenditoriale?
In linea generale, possiamo parlare di economia della conoscenza ogni
volta che ci troviamo di fronte ad un segmento del sistema economico in
cui il valore economico (utilità per i soggetti economici) viene
prodotto attraverso la conoscenza.
In questi casi, il lavoro umano non trasforma la materia prima, ma - se è
lavoro cognitivo - genera conoscenze innovative che, col loro impiego,
saranno usate per trasformare la materia (con le macchine) e creare
indirettamente utilità. Oppure potranno, in altri casi, fornire servizi
utili anche senza trasformare la materia prima, ma semplicemente
fornendo un'informazione, una consulenza, una comunicazione che generano
direttamente utilità presso l'utilizzatore ecc..
Le utilità create dall'uso della conoscenza possono derivare da diverse
forme di uso. Prima di tutto possono derivare dalla riduzione dei costi
di un precedente processo produttivo (efficienza). Ma possono anche
derivare dalla creazione di un nuovo prodotto o servizio, che non
esisteva in precedenza, o dalla produzione – attraverso la conoscenza –
di significati, desideri, identità. Oppure dalla personalizzazione del
servizio, dalla progettazione di esperienze coinvolgenti, dalla
costruzione di rapporti fiduciari e di garanzia e così via. In tutti
questi casi, la base materiale di un prodotto può anche rimanere
inalterata o subire modificazioni banali: quello che crea valore,
infatti, è direttamente la conoscenza, nelle sue varie forme, che viene
applicata a tale base materiale.
Ma quanto pesa questa trasformazione? E' un fatto marginale o centrale nell'economia di oggi?
Basta poco per rendersi conto che questa è andata ormai tanto avanti da
fornire una nuova base alla produzione tout court. A tutta la
produzione, non solo a quella di oggetti esotici o di lusso.
In termini di utilità che l'utilizzatore riconosce e paga, infatti, il
valore del prodotto materiale che esce dallo stabilimento è ormai solo
una frazione minore - e continuamente decrescente - del prezzo pagato
per acquistarlo. Un abito, nel momento in cui esce dallo stabilimento di
confezioni, può valere cinque o dieci volte meno di quello che sarà
pagato, presso il negozio, da chi lo indossa. La differenza è, appunto,
dovuta al significato estetico, al servizio, al ruolo comunicativo che
la moda ha associato al prodotto materiale stesso. Lo stesso vale per
tutto ciò che riguarda l'abbigliamento personale, l'arredamento della
casa, il cibo, il turismo, la cosiddetta wellness, e anche l'acqua
minerale. Il valore dei beni è ancorato a elementi immateriali
(significato, esperienza, servizio) prima che ai costi e alle
prestazioni del processo materiale che l'ha prodotto.
D'altra parte, la smaterializzazione del valore comincia proprio dalla
forza produttiva per eccellenza, ossia dal lavoro. Il lavoro oggi non è
più, salvo rare eccezioni, lavoro materiale (uso della forza muscolare
per trasformare fisicamente la materia prima in prodotto finito), ma è
al 99% dei casi lavoro mentale (cognitivo), nel senso che usa le
conoscenze di cui si dispone per produrre altre conoscenze, portatrici
di utilità. E questo, al solito, non riguarda ormai pochi ruoli
"intellettuali" (i professori, gli attori, gli scienziati ecc.) ma tutti
i lavori: anche il lavoro operaio si sviluppa guidando macchine (con la
conoscenza) e usando il cervello prima che i muscoli.
Se il lavoro è divenuto ormai totalmente lavoro cognitivo e se il
consumo attribuisce la maggior parte del valore al significato o al
servizio associato ad un bene materiale, invece che al bene materiale di
per sé, dobbiamo prendere atto del fatto che un grande cambiamento si è
ormai compiuto: la nostra economia reale è diventata un'economia in cui è la conoscenza che viene messa al lavoro. Viviamo di conseguenza in una forma di capitalismo cognitivo di cui occorre capire le leggi e le possibilità.
Quello che conta in questa trasformazione, non è tanto l'alleggerimento
dei processi produttivi, che, come è stato detto, sposta l'accento dagli
atomi (pesanti) ai bit (senza peso), quanto il cambiamento del "motore"
che genera valore.
Nell'economia della trasformazione materiale (tradizionale) il valore
economico era prodotto consumando i fattori produttivi impiegati secondo
coefficienti tecnologici prestabiliti. In quel contesto, l'unico modo
con cui la conoscenza - in aggiunta alla tecnologia - poteva aumentare
il valore prodotto era attraverso il miglioramento dell'allocazione dei
fattori tra i possibili usi alternativi. I mercati (prezzi relativi) e
le imprese (calcolo di convenienza) facevano appunto proprio questo:
generavano valore addizionale rispetto a quello consentito dalla
tecnologia, agendo sull'allocazione delle risorse, croce e delizia
dell'economia neoclassica di tutti i tempi (anche di quella di oggi).
Il ragionamento era presto fatto: se prezzi di mercato e calcolo
riuscivano a modificare l'allocazione delle risorse, in modo da
destinare terra, lavoro e capitale agli usi che sono in grado, data la
tecnologia, di produrre un maggior valore utile dal punto di vista delle
preferenze (date) dei consumatori finali, si generava ipso facto un
valore addizionale. Il motore dell'economia materiale era dunque fatto
di tecnologia, mercati e calcolo: il resto non contava perché – si
immaginava – che non potesse produrre valore, ma solo dare una
coloratina superficiale al grigio mondo dei coefficienti tecnici, dei
prezzi e dei calcoli.
Ma era un'idea sbagliata. Forse plausibile in un'economia di sussistenza
dove desideri, esperienze e significati non contano, perché si tratta
di ottenere dal lavoro quante più calorie e beni necessari possibili. Ma
certo inadeguata a rendere conto di come funziona un'economia in cui le
calorie bisogna diluirle e i beni sono diventati non necessari, spesso
dannosi. In questa economia "ricca", che va oltre la sussistenza, i
bisogni deperiscono se non si trasformano in desideri, le necessità
perdono di cogenza, il calcolo mezzi-fini comincia a dare più importanza
alla creazione di nuovi fini che all'efficienza con cui i mezzi li
perseguono. Insomma, l'economia dei paesi sviluppati apre spazi di
libertà che tecnologia, prezzi e calcoli non bastano a riempire. Ci
vuole un approccio diverso che consenta di esplorare il nuovo, dando
significato e valore alle esperienze possibili.
Questo passaggio viene compiuto attraverso l'economia della conoscenza,
in cui il valore viene prodotto costruendo il mondo delle possibilità e
creando forme e valori che non sono necessitati, ma frutto dell'immaginazione, della comunicazione e della condivisione.
In questo tipo di mondo, si realizza un cambiamento sostanziale rispetto
al modello di produzione (materiale), centrato sul consumo dei fattori.
Le conoscenze impiegate per produrre significati, esperienze e servizi,
infatti, non si consumano con l'uso. Esse, anzi, mantengono o
accrescono il loro valore man mano che vengono ri-usate, propagandosi ad
usi successivi, man mano che il loro bacino di applicazione si amplia,
nello spazio e nel tempo.
La base della produzione di valore, in un processo del genere, non è
tanto la produzione di nuova conoscenza, quanto la propagazione della
base di conoscenza pre-esistente in un bacino di usi sempre più ampio.
La propagazione ovviamente costa, perché richiede investimenti per
adattare le conoscenze a nuovi usi e a nuovi problemi, ma il costo di
ri-uso non è mai così grande come quello di (prima) produzione. La
propagazione crea valore perché la conoscenza, non consumandosi con
l'uso, può essere replicata a costo zero, per tutta una serie di
impieghi in cui si ripete lo stesso codice o programma, o, comunque, ad
un costo molto basso.
In questo processo, gli usi potenziali di una certa conoscenza non sono
alternativi, ma possono sommarsi tra loro mediante propagazione: ad ogni
ri-uso della conoscenza si crea un valore addizionale, mentre i costi
non crescono o crescono molto poco.
La propagazione, generando valore addizionale, è anche la fonte
principale dei profitti ricavati dagli investimenti fatti nella
produzione di nuova conoscenza e, successivamente, nella propagazione
dei suoi usi. In questo senso, la propagazione è un processo che si
ri-alimenta, rendendo conveniente investire nella produzione di
conoscenze ulteriori e di ulteriore propagazione degli usi delle
conoscenze preesistenti.
Se il valore economico è generato dalla propagazione delle conoscenze,
che si rialimenta rinnovando le conoscenze iniziali, allora c'è bisogno
di una vera e propria rivoluzione concettuale che porti a vedere il
reale "motore" della crescita economica, fino ad oggi rimasto abbastanza
nell'ombra. Ecco il significato profondo dell'economia della
conoscenza: spostare la visione dell'economia dal processo di
produzione a quello di propagazione, ossia dal consumo razionale dei
fattori disponibili alla creazione di reti che facilitino la
propagazione intelligente, nello spazio e nel tempo, di quanto la
società sa e sa fare.
Anche la storia del capitalismo industriale deve essere riletta in questa chiave.
In questi due secoli e mezzo, la propagazione della conoscenza,
destinata ad essere ri-usata in bacini sempre più ampi, e l'investimento
in apprendimento sono rimaste caratteristiche costanti, anche se di
ampiezza sempre maggiore; ma, nel corso del tempo, è cambiato il medium e
il metodo della propagazione.
Prima la propagazione ha usato il mercato (per ampliare il circuito di
vendita delle macchine), poi l'organizzazione, poi il territorio, poi
Internet, e oggi la comunicazione interattiva nelle filiere produttive
globali. Attraverso tutti questi passaggi la conoscenza si è "liberata"
dalla necessità di essere incorporata in media materiali (le macchine,
l'organizzazione, il territorio) e ha cominciato a circolare sotto forma
virtuale, appoggiandosi a codici di software o a linguaggi. E' allora
che le controfigure iniziali (macchine, organizzazione, territorio)
hanno cominciato a non bastare più, costringendo l'economia teorica -
che prima si contentava di queste - a fare i conti con la conoscenza in
quanto tale, non riducibile a capitale (macchine), ad asset aziendale
(organizzazione) o a capitale sociale (territorio). E qui sono
cominciati i guai, perché la conoscenza ha proprietà che sono
antitetiche rispetto a quelle delle "normali" risorse produttive (terra,
lavoro, capitale), e che contraddicono dunque l'impianto di base
costruito dalla teoria per spiegare il modo con cui, nella produzione,
si genera valore economico.
Le risorse economiche classiche si caratterizzano per essere scarse
(hanno valore perché ogni uso le sottrae ad usi alternativi), divisibili
(ogni risorsa ha un valore determinato, disgiungibile dagli altri
valori coinvolti nel processo produttivo sociale, perché può essere
associata a costi e ricavi ad essa imputabili) e strumentali (le risorse
sono puri mezzi, da ottimizzare, calcolando le allocazioni migliori per
soddisfare fini dati).
Ebbene, la conoscenza è una risorsa che, per sua natura (e specialmente
se è conoscenza riproducibile) non è scarsa (avendo un costo di riproduzione nullo o quasi), non è divisibile
(essendo i suoi costi e i suoi ricavi associati a processi sociali che
legano passato e futuro e che intrecciano l'economia di un operatore con
quella degli altri), e non è strumentale (perché il
conoscere non elabora solo i mezzi, ma cambia le relazioni e le identità
degli attori in gioco, modificando i fini, ossia le preferenze degli
stessi).
Attenzione: la conoscenza produce valore propagandosi e rinnovandosi,
con nuovi investimenti in apprendimento, proprio grazie a queste
anomalie. Ossia proprio perché è moltiplicabile (non scarsa), è condivisibile (non divisibile) ed è riflessiva, potendo retroagire sui fini, invece di essere banalmente strumentale.
L'economia teorica tradizionale sta oggi riconoscendo l'importanza della
conoscenza con due secoli di ritardo. Ma, in questo riconoscimento,
rischia di fare più danni di quanto abbia fatto la sua secolare
disattenzione. Infatti, una volta detto che la conoscenza è una risorsa
produttiva fondamentale, l'economia tradizionale ha il riflesso
condizionale di voler "normalizzare" le anomalie che la conoscenza
presenta in quanto risorsa non scarsa, non divisibile e non strumentale.
Senza pensare che sono proprio queste anomalie che la rendono una
straordinaria fonte di valore economico, mettendo in moto una
propagazione che sarebbe gravemente ostacolata una volta che la
conoscenza - sottoposta alla terapia della normalizzazione - fosse
diventata scarsa, divisibile e strumentale.
Si rischia, per questa incomprensione di fondo, di buttare via il
bambino con l'acqua sporca: una conoscenza divenuta artificiosamente
scarsa, divisibile e strumentale non sarà capace di propagarsi e di
rinnovarsi con la stessa velocità e con la stessa qualità della
conoscenza "anomala", che violava i principi classici dell'economia. Si
tratta allora di percorrere la strada esattamente opposta, ossia di
organizzare le proprietà anomale della conoscenza per renderle
compatibili con la sostenibilità del processo di investimento nella
produzione di nuova conoscenza. Ciò può essere fatto organizzando, con
regole appropriate e in contesti adeguati, la moltiplicazione, la
condivisione e la riflessività della conoscenza, in modo da utilizzare
fino in fondo le proprietà generative che derivano da queste anomalie.
E' questo il presupposto da cui nascono le esperienze innovative di
propagazione della conoscenza attraverso canali non consueti che
organizzano l'open source nel software, il fair use nell'impiego di
conoscenze protette da diritto d'autore, l'opposizione a criteri
estensivi di brevettabilità nell'informatica e nella biologia, la
creazione di canali comunitari di condivisione delle conoscenze, lo
sviluppo di un'economia del dono che crea legame sociale e fiducia
reciproca. Tutte esperienze che hanno come linea di sviluppo strategica
la ricerca di forme di propagazione delle conoscenze che organizzino
moltiplicazione, condivisione e riflessività in forme compatibili con il
criterio di sostenibilità degli investimenti in apprendimento, con cui
rialimentare continuamente il processo.
La condivisione della conoscenza su Internet avviene attraverso
il net-learning. Che cos'è il net-learning e cosa lo differenzia
dall'e-learning?
In un'economia che si basa sulla propagazione della conoscenza in un
bacino di usi più esteso possibile, la rete che assicura canali veloci e
globali alla propagazione non è un accessorio, ma un ingrediente
essenziale.
Nell'economia del primo capitalismo, la rete di propagazione delle
conoscenze era di tipo tecnico-scientifico e si basava essenzialmente
sulla circolazione internazionale delle macchine e dei nuovi materiali.
Ma, come si può capire, si trattava di una circolazione lenta e
parziale, dal momento che le macchine incorporavano solo la conoscenza
traducibile in movimenti meccanici e in proprietà tecnologiche date.
Bisognava quindi prima tradurre le conoscenze disponibili in questa
forma e poi mettere in circolazione macchine costose, richiedenti un
forte investimento di capitale, facendole lavorare in contesti in genere
disadatti o comunque diversi da quello di origine. La meccanizzazione
si è dunque propagata lentamente e in modo diseguale nel mondo, essendo
condizionata dalla disponibilità di ingenti capitali e da rischi
elevati.
Nel fordismo la rete tecnologica è stata integrata e in parte sostituita
dalla rete organizzativa, ossia dalla crescita dei canali di
propagazione proprietaria interni alle grandi imprese, partendo da
grandi imprese nazionali per finire con grandi imprese multinazionali.
Il limite è dato dalla natura autarchica delle reti proprietarie e dai
tempi necessari per estendere i volumi di un solo concorrente a scapito
di tutti gli altri.
Dagli anni settanta in poi, la propagazione si è avvalsa di una rete di
relazioni di tipo territoriale (capitale sociale). In questo caso, le
imprese possono rimanere piccole (come accade nei distretti), senza
ostacolare la propagazione delle conoscenze a scala locale, perché la
contiguità fisica e culturale consente di specializzarsi nelle filiere,
di copiare o imitare quello che fanno gli altri, di acquistare macchine,
componenti, lavorazione o servizi dagli specialisti locali. Il limite
sta nel fatto che il bacino di propagazione è necessariamente limitato
all'area locale.
Le cose cambiano con Internet e con la New Economy: per la prima volta
si ha la possibilità di una propagazione istantanea e globale, di tipo
non proprietario, ma aperta alla divisione del lavoro tra molti attori
autonomi, anche di piccola dimensione. Sembra la quadratura del cerchio
(massima propagazione possibile), ma non lo è: il limite è dato dal
fatto che la propagazione è massima e a costo minimo solo se le
conoscenze che vengono propagate da Internet sono codificate e
automatizzate.
Negli ultimi anni, gli usi di Internet si sono evoluti rispetto a questo
modello iniziale, che era in parte illusorio, perché non teneva conto
del fatto che la conoscenza è utile soprattutto in situazioni complesse
(varie, variabili e indeterminate), che sono quelle in cui la
codificazione e l'automazione risultano spesso difficili o
controproducenti. L'uso di Internet si evolve per tener conto della
crescente complessità del mondo contemporaneo a tutti i livelli,
affiancando ai canali in cui corre conoscenza codificata o banale,
canali in cui invece si utilizzano le facoltà dell'intelligenza umana,
l'apprendimento interattivo, la condivisione di progetti e di
innovazioni.
Di qui la conseguenza a cui allude la distinzione tra e.learning e net.learning:
la rete può essere vista in due modi abbastanza diversi. Ossia, come
strumento per distribuire a costo zero e in tempo reale conoscenza
pre-codificata (informazione), indifferente al contesto di uso; o come
strumento per mettere in comunicazione, ad un costo più alto e in tempi
non nulli, persone che si attrezzano - mentalmente, operativamente,
fiduciariamente - per interagire tra loro nonostante la barriera della
distanza.
I due modi di impiego della rete non si escludono: solo che è equivoco
usare lo stesso termine per denotare due cose molto diverse. Il primo
uso, quello che in genere si associa al prefisso e.,
mette in campo computers e procedure automatiche, con grandi economie di
replicazione, grande rigidità e poca capacità di adattamento e di
apprendimento. Il secondo uso, che si associa in genere al prefisso net.,
mette invece in comunicazione uomini e contesti che possono, attraverso
la rete, avere un interscambio ricco e problematico, trattando
situazioni complesse e realizzando forme condivise di innovazione,
sperimentazione e apprendimento. Diciamo che il primo è produzione di
massa, il secondo è produzione innovativa e personalizzata. Ma in
ambedue i casi si genera valore attraverso la propagazione della
conoscenza in rete.
Riportando questa demarcazione nei processi di formazione e
apprendimento, diventa chiaro che l'e.learning è una forma di learning
che usa la rete solo per avere materiali, procedure, accessi
pre-codificati e a basso costo. Il secondo invece usa la rete per creare
un processo sociale tra persone che a vario titolo partecipano ad un
percorso di innovazione, sperimentazione e apprendimento. Le cose banali
possono essere risolte col primo, le cose complesse richiedono il
secondo procedimento. Inoltre, nel primo caso la rete viene utilizzata
per disgiungere le persone che immettono in rete le informazioni e
quelle che le usano, inseguendo il mito della disintermediazione; nel
secondo caso, invece, la rete viene usata per congiungere chi produce la
conoscenza, chi la trasferisce e applica a contesti diversi e chi, alla
fine, la usa nella sua economia di consumo. Non si disintermedia, ma si
collega, creando circuiti di comunicazione e interazione a distanza.
Che ruolo svolge la creatività in quella che Lei chiama "fabbrica dell'immateriale"?
La "fabbrica dell'immateriale" è la filiera produttiva - fatta di molte
imprese e di molti contributi lavorativi - che usa lavoro cognitivo
(lavoro di trasformazione delle conoscenze e delle relazioni) per
produrre valore utile, a vantaggio non solo del consumatore finale, ma
anche dei diversi soggetti che partecipano all'attività (lavoratori,
imprenditori, intermediari).
Creatività, significa, in questo caso, capacità di rendere compatibili
due aspetti ugualmente importanti della propagazione delle conoscenze:
usando una distinzione proposta da Jim March, occorre legare
l'esplorazione del nuovo (exploration) con la replicazione degli usi (exploitation).
In questo senso, non è creativo (nella produzione di valore economico),
l'inventore, l'artista o l'intrattenitore che si cura solo
dell'exploration, pensando al "pezzo unico" (utilizzabile solo una
volta); e non è creativo il burocrate, l'amministratore, l'esecutore che
bada soprattutto all'exploitation, replicando simboli procedure e
codici già assestati. E' invece creativo colui che - qualunque posizione
occupi nella filiera - ricerca soluzioni che consentono di avanzare su
ambedue questi fronti, o almeno su uno di essi senza sacrificare
l'altro. Per completezza, la creatività andrebbe integrata con la
capacità di trovare soluzioni che rispettano anche il terzo requisito
della propagazione: la sostenibilità degli investimenti in produzione di
nuova conoscenza. Le soluzioni trovate dall'operatore creativo, nella
filiera, devono essere in grado di legare elasticamente exploration (del nuovo), exploitation (ri-uso) ed extraction (del profitto), in modo che il "motore" della produzione di valore a mezzo di conoscenza possa girare senza intoppi.
Ma chi sono gli operatori creativi in questo senso?
Un ruolo importante, nella filiera, può essere quello del consumatore.
Il consumatore riceve la conoscenza utile dalla filiera cognitiva, ma
tocca a lui, organizzando il consumo, metterla in valore. Se non lo fa o
non lo sa fare, il valore non viene creato e tutta la filiera ne
soffre. Se un'opera lirica viene ascoltata da un pubblico non educato
alla musica e a quel genere di musica, difficilmente produrrà percezione
estetica e coinvolgimento emotivo. Si avrà piuttosto un grande spreco
di risorse, per un risultato scarso. Se un grande vino, condensato di
conoscenze rare, viene servito a tavola alla temperatura sbagliata, il
valore potenziale che esso contiene non verrà mai prodotto. Lo stesso
accade per un programma di software: se il consumatore non è preparato
ad usarlo, il programma non servirà a niente.
Dunque, contrariamente a quanto accadeva nella produzione materiale, il
consumatore immateriale non si limita a "consumare" (distruggere) il
prodotto fornito dalla filiera dei produttori, ma deve impiegare proprie
conoscenze per impiegare bene il prodotto cognitivo fornito dalla
filiera, in modo da organizzare esperienze cognitive per lui rilevanti o
emotivamente coinvolgenti. Un compito complesso, che richiede
competenza. Una filiera creativa richiede consumatori intelligenti che
siano anche capaci di comportamenti creativi in termini di exploration,
exploitation ed extraction del valore. Anche il consumatore, in questo
deve essere creativo e in questo senso egli fa parte a pieno titolo
della filiera produttiva, non ne sta fuori.
Ma anche gli altri operatori della filiera (imprenditori, lavoratori,
investitori) possono contribuire creativamente alla creazione di valore,
se cercano soluzioni che connettono le tre funzioni sopra ricordate. E'
importante ricordare che il valore economico creato da questi operatori
può essere valore utile per il consumatore finale - e allora viene
remunerato attraverso il prezzo che questi paga - ma può anche essere
"valore intrinseco" ossia valore che l'imprenditore attribuisce alla sua
attività, il lavoratore al suo lavoro, l'investitore al suo
investimento in un certo campo.
Come abbiamo detto, la conoscenza non è mai una risorsa soltanto
strumentale. Dunque, c'è sempre un problema di senso per chi lavora, a
qualsiasi titolo, in un processo cognitivo. Creatività allora significa
anche legare la funzione utile svolta per il consumatore finale al senso
del proprio lavoro: il cantante riceve un valore dal suo lavoro non
solo perché è pagato (dal consumatore finale), ma anche perché assegna
valore ad un lavoro che fa per passione e non solo per denaro. Lo stesso
vale, in una certa misura, per tutti i lavori dotati di contenuto
cognitivo: il ricercatore fa ricerche utili (per gli altri), ma assegna
valore anche al suo ricercare perché lo considera un lavoro dotato di
senso dal punto di vista della sua personalità e della sua visione del
mondo. Il calciatore, l'attore, il poliziotto, l'amministratore pubblico
ecc. fanno lo stesso: un po' lo fanno per denaro, un po' per il senso
(più complesso) che danno al loro lavoro.
Non c'è un modo precostituito che tenga insieme exploration,
exploitation, extraction e senso. Chi sta nella filiera cognitiva
(compreso il consumatore) deve procedere senza soluzioni fisse e
prefabbricate, ma ricercando creativamente percorsi non immediatamente
visibili e non certi. Creatività significa anche assunzione di rischio:
rischio di investire in percorsi ciechi o in perdita, rischio di non
trovare interlocutori validi, rischio di stufarsi per strada dopo aver
fatto gli investimenti iniziali. In questo senso, la creatività non può essere solo una qualità individuale, ma piuttosto diventa una proprietà dei processi di condivisione: si crea insieme, condividendo un progetto, e se ne assume il rischio insieme.
Jeremy Rifkin sostiene che il nuovo "capitalismo culturale" (nel
quale il vantaggio competitivo è dato dal "capitale intellettuale") può
avere due facce; può essere un nuovo Rinascimento oppure un'epoca cupa,
un secolo buio: "Dipende da come sapremo bilanciare la
commercializzazione della cultura, e quindi della vita, e il
mantenimento di spazi culturali non mercificati". Qual è la Sua opinione
a riguardo?
In linea generale sono d'accordo, perché bisogna reagire al tentativo di
"normalizzare" la conoscenza rendendola scarsa, e dunque riducendola a
merce vendibile e acquistabile sul mercato come tutte le altre merci.
Questo tentativo è sbagliato per diverse ragioni.
Prima di tutto, è il riflesso condizionato di una visione del mondo in
cui l'unica forma concepibile di organizzazione sociale è quella
associata allo scambio di mercato e dunque alla proprietà delle merci
che sul mercato devono essere scambiate. Ma questa idea, che ricalca il
modo di funzionare del capitalismo liberale dell'ottocento, non ha
nessun titolo per esaurire i modi con cui la produzione può essere
organizzata in forma moderna (ossia in forma adatta alla propagazione).
Intanto, l'evoluzione stessa del capitalismo è andata oltre il modello
mercantile chiamando in causa forme di propagazione appoggiate al
comando gerarchico (fordismo) o alla condizione del capitale sociale
(territorio). Questo pluralismo dei canali di propagazione della
conoscenza è stato ulteriormente sviluppato negli ultimi anni, anche
grazie ai mass media e ad Internet, arrivando ad una situazione in cui
la conoscenza si propaga comunicativamente e dunque appoggiandosi a
tutte le possibili motivazioni e strumenti del capitalismo comunicativo:
si può comunicare per motivi utilitaristici, ma anche per donare le
proprie conoscenze ad altri, per condividere progetti, per fare
pubblicità a un'idea o ad una persona, per avere riconoscimento e
legittimità dagli altri.
Il mercato, già oggi è solo uno dei canali di propagazione e le sue
tipiche strumentazioni (proprietà privata delle merci, finalità
utilitaristiche dello scambio) si attagliano solo in parte alle
proprietà della conoscenza. Dunque, lo spettro di una colonizzazione
mercantile del mondo del lavoro, del consumo e della vita va
esorcizzato: forse esistono già nel sistema cognitivo gli anticorpi
necessari ad evitare la mercificazione della vita. La conoscenza,
infatti, risponde a criteri di validità (o di affidabilità) che guardano
alla verità, e non all'utilità di quanto si dice, si fa o si scambia.
Fino a che la demarcazione tra verità e utilità rimane - e dovrà
rimanere se non si vuole che le conoscenze perdano efficacia - rimarrà
una distanza tra le ragioni e i metodi con cui si elabora la conoscenza e
quelli con cui si riduce la conoscenza a merce tra le merci,
riducendola ad un problema di utilità. Da questo punto di vista non
bisogna essere pessimisti: la società aperta di stile popperiano, che
coltiva l'intelligenza critica della falsificazione, è rimasta sulla
breccia in tutta la storia della modernità non solo perché c'è chi l'ha
difesa, ma anche per la sua intrinseca capacità di usare bene la
conoscenza, meglio dei sistemi autoritari o dei sistemi mercantili allo
stato puro.
Ciò detto, non bisogna trascurare il fatto che il mercato - dando la
possibilità di comprare una conoscenza da chi si vuole, in funzione del
prezzo - è anche un potente fattore di liberazione delle soggettività
individuali e sociali, che, proprio grazie al mercato, possono - se
vogliono - superare l'orizzonte del contesto in cui le ha incasellate la
storia o l'origine anagrafica. Il mercato è un ottimo propagatore delle
conoscenze quando la propagazione non ha bisogno di usare legami e
comunicazioni interpersonali. E' sbagliato considerarlo l'unico mezzo
moderno di propagazione, ma è anche riduttivo considerarlo un male in
sé. Piuttosto, possiamo vederlo come un solvente che continuamente
scioglie i precedenti legami e le precedenti formazioni sociali, ma
anche come un collante che, in parte, ricostruisce legami alternativi,
sia pure standardizzati e poveri di significato.
Il problema, dunque, deve essere visto non tanto in termini di difesa
dalle pressioni della mercificazione, stabilendo un'opposizione di
principio tra conoscenze mercantili e conoscenze di altro genere, ma in
termini pragmatici, in modo da conciliare l'interesse statico alla
massima propagazione della conoscenza con l'interesse dinamico
all'incentivazione degli investimenti in conoscenza. Si deve parlare non
tanto di proprietà, quanto di incentivazione: la prima è un principio
di esclusione dal godimento che, nel caso della conoscenza, non trova
giustificazione oggettiva: se il "consumo" di una conoscenza non riduce
la possibilità di altri usi (successivi) a vantaggio di altri, il
principio di esclusione non ha un solido fondamento. Esso serve solo a
rendere artificialmente scarsa la conoscenza, in modo che sul mercato
possa avere un prezzo remunerativo. Ma ci sono molti modi di remunerare
la conoscenza (anche senza renderla scarsa) e ci si deve chiedere
comunque fino a che punto la scarsità va spinta, e dunque fino a che
punto sono giustificate le rendite monopolistiche che ne derivano. Sono
giustificati i guadagni miliardari che le economie di scala consentite
dai mass media fanno affluire a calciatori, cantanti, attori,
presentatori televisivi come compenso delle loro conoscenze/competenze
esclusive?
C'è poi un problema di "monopolio naturale" legato alle economie di
rete, che favoriscono le reti già esistenti, rispetto ai nuovi entranti,
e che portano all'affermazione di standard collettivi. In questi casi,
reti e standard nascono da servizi e proposte private che vengono fatte
proprie dal pubblico, che alla fine investe nella partecipazione a certe
reti e nell'impiego di certi standard. C'è da chiedersi se i
proprietari originali di reti e di standard che si affermano sul mercato
possano sfruttare liberamente il monopolio che si viene a creare in
questo modo, o se reti e standard, una volta che diventino di interesse
pubblico, non siano da considerare beni collettivi, da regolare o da
pubblicizzare, magari con adeguati indennizzi ai privati che vengono
privati della loro libera disponibilità.
Uno degli obiettivi di associazioni come Creative Commons è
quello di diffondere una "nuova" idea di "commercio culturale": un libro
rilasciato con licenza open content è un libro che può essere
acquistato on-line o in libreria, ma al tempo stesso è un libro che
chiunque può riprodurre, mettere in rete e rendere accessibile a tutti
gratuitamente.
Secondo Lei questo tipo di "commercio culturale" ha un futuro oppure il
classico sinallagma "ti darò soltanto se mi darai" continuerà ad essere
l'indiscusso "paradigma dominante" anche in questo ambito?
La licenza open content non fa che riconoscere un dato di fatto
evidente: ogni conoscenza posseduta è frutto, diciamo, di un 90% di
conoscenze ottenute da altri e solo di un 10% di conoscenze elaborate
personalmente in aggiunta alla base di partenza. Ora, questo 90% di
origine esterna è solo in parte minima ottenuto pagando a prezzo di
mercato le conoscenze acquistate. Ciò accade per le macchine, le materie
prime ecc. Ma che dire delle conoscenze scientifiche? E delle
conoscenze acquisite in famiglia o nella scuola? E delle conoscenze che
circolano nella pubblicistica e nei mass media? E delle conoscenze che
vengono, ogni giorno, copiate, imitate, riprodotte da altri?
Dunque, paghiamo in minima parte quello che riceviamo dall'esterno. Se,
aggiungendo il nostro 10% arriviamo ad un'invenzione o ad un testo
d'autore non possiamo - brevettando il risultato finale - ottenere
l'esclusiva anche su quel 90% di conoscenze che abbiamo ricevuto da
altri.
La protezione proprietaria, determinando l'esclusione di tutti gli altri
tranne il proprietario dal libero uso di un certo dispositivo
cognitivo, deve dunque essere graduata con molta accortezza. Se
l'obiettivo non è quello di "tutelare la proprietà", ma quello - assai
più relativo - di garantire le premesse per la propagazione dinamica
delle conoscenze (rendendo conveniente investire nella produzione di
nuove conoscenze), allora il diritto di esclusione deve essere limitato a
quanto serve per raggiungere questo obiettivo, escludendo tutti i casi
in cui l'esclusione avrebbe un effetto controproducente (limitando la
propagazione statica e dinamica, invece di incentivarla).
Soprattutto, effetti controproducenti e spesso ingiustificati si hanno
in tutti i casi in cui la tutela non viene offerta alle conoscenze
addizionali che sono frutto di un lavoro di invenzione originale, ma
viene richiesta per rendere esclusivo l'uso di strutture che già
esistono in natura (certe varietà biologiche, ad esempio), o
nell'evoluzione di un settore (certi programmi di software inizialmente
di pubblico dominio o ammortizzati da tempo) e nella storia culturale
(certi segni o simboli diventati parte dell'identità collettiva). Se
l'autore si limita a riprodurre ciò che già esiste in natura o nella
storia, non deve essere impedito ad altri di fare lo stesso, se non si
vuole ridurre le capacità di propagazione statica e dinamica delle
conoscenze esistenti.
Tuttavia, il lavoro sulle norme e sul loro uso pragmatico è solo una
parte delle cose da fare. Accanto a questo, c'è da portare avanti un
lavoro che punta alla creazione di rapporti di condivisione consapevole e dialogica di conoscenze, linguaggi, regole, progetti.
Questo lavoro è insostituibile se si vuole uscire dalla logica della
scarsità e abbracciare quella della moltiplicazione organizzata.
via Scarichiamoli.org